domenica 5 marzo 2017

Livorno sotterranea, tra illusione e realtà


I cunicoli del vecchio acquedotto ancora praticabili
Tra illusione e realtà la Livorno sotterranea
Dalle grotte di San Jacopo alla “settima galleria”

            Il fascino della possibile esistenza di caverne, cunicoli e magazzini, dedali di corridoi e stanze e cantine che si sviluppano sotto il lastricato che ogni livornese calpesta quotidianamente ha sempre scatenato supposizioni basate più sul “sentito dire” che non su documentabili testimonianze. Leggenda vuole che sotto il Voltone ci fosse l’accesso ad una città alternativa, in antitesi con quella che ogni giorno ci troviamo sotto gli occhi, con tanto di vicoli, negozi con relative insegne ed abitazioni immersi in un ambiente buio ed intriso di umidità e miasmi mefitici. Affascinante il mistero della settima galleria, attraverso cui si poteva partire dalla Fortezza Nuova, arrivare sul Pontino e proseguire fino a piazza Rangoni, oggi piazza Garibaldi: il nome di per se implica l’esistenza di almeno altri sei passaggi potenzialmente utilizzabili (o utilizzati?) quali rifugi per sfuggire ai bombardamenti dell’ultimo conflitto, ma di cui non si ha notizia certa.

Nel 1849 qualcuno, rimasto anonimo, raccontò, ne “I misteri di Livorno”, di un locale posto in un vicolo buio della Venezia Nuova “dove un gentiluomo non può passare per i fatti suoi nella notte senza pericolo di essere gratuitamente sventrato”. L’osteria “I tre mori”, era questo il nome del locale, era priva d’insegna tuttavia si narra di una scala tortuosa in fondo a cui, attraverso tre botole, si accedeva ad altrettanti locali sotterranei nei quali veniva riposta la refurtiva, la “busca”, risultato di una giornata di estorsioni e ladrocini: dai locali sotterranei è facile immaginare vie di fuga che consentissero ai malviventi di dileguarsi nel buio, magari lungo i fossi, i
n caso d’irruzioni delle autorità preposte. Il solito anonimo, inoltre, raccontava di aver visitato una galleria naturale scavata dalle onde lungo la scogliera di San Jacopo; il c
galleria di contrammina
unicolo si addentrava fin sotto la Chiesa raggiungendo una specie di grotta e da lì altri due locali da cui si dipartivano ulteriori budelli probabilmente anch’essi utilizzati quali nascondiglio per refurtiva di vario genere o merci di contrabbando.

Facendo un passo indietro, l’antico progetto della cinta muraria con fortificazioni alla moderna, il cosiddetto Pentagono di Buontalenti del tardo XVI secolo, potrebbe aver previsto una rete di cunicoli che garantissero agevoli vie di fuga ai Granduchi ed al loro seguito in caso di attacchi selvaggi di popoli invasori tuttavia non esiste alcun documento negli Archivi Medicei di Toscana, ufficiale o segreto, che dimostri la fondatezza di una congettura del genere.

galleria di mina
            Qualche certezza in più ci viene dalla pubblicazione “Livorno sotterranea e dintorni di sopra” di Riccardo Ciorli e Ugo Canessa, Gli Assaggini del Gufo edizioni del 2004, in cui si parte dall’immagine di una Livorno fortificata della metà del 1700, quando assumeva particolare importanza la Porta a Pisa, corrispondente al lato est dell’odierna via Grande, da dove si raggiungeva la vera e propria Dogana a Terra attraversando un ponte per metà in muratura e per metà in legno (facile da smantellare in caso di tentativi d’invasione). Gli spalti di fronte alla fortezza, oltre il fosso reale, furono soggetti ad uno sviluppo urbanistico selvaggio e per lo più abusivo. La successiva edificazione del Voltone, nel 1844, resasi indispensabile dalle impellenti necessità d’ampliamento della città, impose un nuovo piano stradale ben al di sopra di quello originario,
la cui inevitabile conseguenza fu di oscurare tutto ciò che di precedentemente costruito se ne trovava al di sotto.

            Dalle preistoriche grotte nel monte Tignoso (raso al suolo per ricavarne pietrame), detto anche poggio delle Fate, alle Catacombe di San Jacopo, dai sotterranei posti sotto la Chiesa di Santa Caterina, in Venezia, ai locali sotterranei della Chiesa Armena è lecito attendersi di più, anche se, per il momento, l’esplorazione non si avventura oltre i luoghi recentemente scoperti.

pentagono di Buontalenti
Che sotto la Fortezza Nuova si sviluppino cunicoli meritevoli di ben altra visibilità è testimoniato da tracce di camminamenti che costituivano la cosiddetta Mina, presenti un po’ in tutti i resti dei bastioni che originariamente costituivano la cinta muraria. All’interno di detti cunicoli sarebbero state accatastate polveri da sparo e micce che avrebbero consentito all’eroe di turno d’immolarsi facendo saltare le mura e gli eventuali invasori intenti a scavalcarle. E allora, perché non cedere alla tentazione di cercare le fondamenta del Bastione di San Francesco e magari il gruzzolo di monete d’oro seppellito, a scopo propiziatorio, laddove gli storici ritengono sia stata posta la prima pietra della nostra beneamata città nel lontano 1577?

Meno nobile e per ben altro intento realizzata, la fitta rete
di collegamenti delle cantine tra loro è ben più concretamente credibile: i locali posti alla base dei palazzotti signorili, disseminati un po’ dappertutto nel centro cittadino, erano l’anima del fiorente commercio nel porto di Livorno tuttavia è lecito supporre che, tanto più ci si allontanava dalle zone più frequentate, quanto più si favoriva il prolificare d’illeciti commerci quali la ricettazione o il contrabbando. Un curioso episodio di qualche tempo fa è la conferma di quanto ci sia da scoprire nei sotterranei di Livorno: durante lavori di restauro nella zona del Pontino, all’abbattimento di una parete di una cantina fu rinvenuta la ferrea ossatura di un camioncino modello Tigrotto della OM. L’eccezionalità del ritrovamento stuzzicò la curiosità degli addetti ai lavori che tuttavia, vista l’assenza di collegamenti carrabili lì attorno, non riuscirono a capire come il mezzo avesse potuto raggiungere il suo ultimo e definitivo ricovero. Sta di fatto che, per bonificare la cantina, gli operai furono costretti a tagliare a pezzi la carcassa a colpi di fiamma ossidrica.

Le condotte dell’antico acquedotto del Salvetti, la cui opera è stata completata dall’architetto Pasquale Poccianti, rimangono dunque l’unica testimonianza tangibile di camminamenti sotterranei: a partire dal Cisternone, detto la Gran Conserva, essi si estendono a raggiera e possono essere agevolmente percorsi per raggiungere varie zone della città, pur da un individuo di corporatura non troppo ingombrante. La costruzione delle condotte prevedeva, per questioni puramente fisiche, il rispetto di pendenze che, all’epoca in cui non esistevano pompe, consentissero la distribuzione uniforme del prezioso bene: inevitabile, quindi, il riempimento delle zone interessate e la conseguente sepoltura delle strutture preesistenti, magari proprio le fantomatiche botteghe, viuzze, vicoli e magazzini oltre il Voltone.



Ermanno Volterrani, 27.06.2008

lunedì 19 dicembre 2016

Beppe Orlandi

Beppe Orlandi
Beppe Orlandi

“È già tre vorte ‘he sona la sirena,
siemo senza ‘arbone e nun c’è vino.
Anche stasera siemo senza cena,
si fa le ‘orse ‘ntorno ar tavolino”.

            Così inizia la commedia “Li sfollati”, insieme a “La ribotta a Montinero” il capolavoro di Beppe Orlandi (e Gigi Benigni), con nonna Crolinda che rammenda in cucina. Il genio e la potenza dell’autore-attore sono tutti racchiusi nelle rime alternate di questa quartina. La disperazione figlia della guerra e la conseguente mancanza di un minimo di sostentamento sono espresse in toni farseschi che travalicano la drammaticità dell’evento provocando, nello spettatore, irresistibili moti di riso.
Giuseppe Giovanni Pietro Orlandi vede la luce il 24 agosto del 1998, alle tre del mattino, a Montenero (o Montinero, come direbbe lui), in Via della Lecceta, da Pilade e Concetta Evangelisti, sulle pendici di Monte Burrone, ai margini della tenuta che circonda Villa Bella Vista, di proprietà della duchessa Luisa Mangani Taddeoli, da cui si gode un incomparabile panorama sulla città e sul nostro mare. Beppino si dimostra subito un bambino vivace, ma più che vivace curioso, come lo definisce suo figlio Pier Luigi (in “Beppe Orlandi: un livornese di Montenero in cinquant’anni di storia nostrana” – i quaderni del vernacolo – Editrice Il Quadrifoglio per l’Associazione Lavoratori Comunali). Si burla di tutto e di tutti e non esita a prendere in prestito, dalle donne della cerchia famigliare e non solo, capi d’abbigliamento che esaltino la propria presa in giro. Non è certo un assiduo frequentatore dei banchi di scuola cosicché, presa la licenza di sesta classe all’Ardenza, e a seguito delle necessità della famiglia, s’ingegna nella bottega di Arrigo Gammanossi, abile forgiatore di metalli oltre che appassionato di teatro nonché capace interprete e regista. Beppe entra così a far parte della Filodrammatica Montenerse, acquisendo via-via dimestichezza con il palcoscenico e con peculiarità oratorie e di comportamento che caratterizzeranno tutta la sua esistenza di cittadino ed uomo di spettacolo. La parentesi del militare, dal 1918 al 1920, assume toni drammatici allorché si scopre affetto da poliartrite acuta associata a complicazioni cardiache che lo costringeranno ad un lungo periodo di parziale infermità e che gli frutteranno una pensione d’invalidità, riconosciutagli dallo stato a seguito di non poche peripezie. Non che Beppe si abbandoni al destino, anzi! Una volta congedato, viene assunto alla funicolare di Montenero e si trova a lavorare con Oscarone, amico fidato di tante avventure. A tale proposito, la figlia Lia ci ricorda un episodio (anch’esso citato nel libro del fratello Pier Luigi) che merita di essere ricordato a testimonianza della vis umoristica di Beppe anche negli episodi della vita di tutti i giorni.
... con Mario der Riovero
Così la raccontava il protagonista: “Un giorno Oscar era di turno alla stazione superiore della funicolare, in sala macchine. Io mi trovavo giù, sulla vettura che parte da Piazza delle Carrozze. La vettura fece la solita fermata alla stazione di metà salita, dove abita la famiglia Biasci. La moglie di Oscar, come fa di solito con tutti, mi chiese di porgere il desinare a suo marito. Detti un’occhiata al gamellino e ci trovai del baccalà sotto il pesto che faceva gola alla prima annusata. Non ci pensai due volte: la vettura ripartì, mi adagiai comodamente sulla panca e cominciai a spilluzzicare la pietanza. Un boccone tira l’altro e quando fui in cima il pentolino era completamente vuoto. Lo chiusi con cura e, assunta l’espressione di un innocentino, lo porsi ad Oscar. Lui l’aprì e, diversamente dalla mia, la sua faccia si fece paonazza: faceva paura! Poi, furbo come una volpe, disse: ‘te di certo non ne saprai niente!’. Prontamente, per scagionarmi, balbettai: ‘ma scherzi?!’… la tanfata della ‘M’ fu fatale! Bastò per fargli capire dov’era andato a finire il suo baccalà! Non vi dico cosa sfulminò prima che tutto si risolvesse in una risata… al bar, dove, per rimediare, partì il mio primo stipendio ancor prima di averlo riscosso!”.
Ecco lo spirito di colui che coglie ogni sfumatura della vita di tutti i giorni e che ne fa spettacolo: il suo teatro, le sue caratterizzazioni si basano sull’osservazione della quotidianità, della popolana al mercato, del netturbino, del consumatore assiduo di ponci o del becco di turno.
Tra uno spettacolo e l’altro, Lia Orlandi racconta del primo vero incontro di calcio tra artisti, di cui fu protagonista anche suo padre al Ginnasio nel dopo guerra, e rivive volentieri una rappresentazione allestita, sempre al Gimnasio, in cui tra gli interpreti, oltre a Beppe, spiccò Mario der ri’overo nella veste di un improponibile neonato che, dall’interno di una carrozzina, sbirciava all’esterno agghindato di cuffia trinata e succhiotto in bocca. Un’altra fotografia mostra Lia, in giovane età, che reca a cavalluccio, proprio Mario come fosse un ragazzino, a dispetto dell’età avanzata.
“Mio padre era un uomo estremamente serio e rispettoso ed esigeva altrettanto rispetto in famiglia e fuori.” Continua Lia “Per questo capitava di trovarsi in soggezione, nei suoi confronti, benché non perdesse occasione per dimostrare la sua infinita bontà d’animo. Non ha mai raccontato una barzelletta in casa come dire che la devozione per la famiglia trasformava l’attore comico in un pilastro su cui fare riferimento. Era innamoratissimo di mia madre (al secolo Zemira Iacopini) fin dall’età infantile allorché vivevano in abitazioni adiacenti e l’attaccamento di lei era tale da scatenare una gelosia quasi morbosa, ma che definirei inevitabile, visto l’ambiente che lui frequentava; e pensare che egli non ha mai tenuto un comportamento neanche lontanamente compromettente o quanto meno tale da dare luogo a qualche maldicenza, con le donne che ha frequentato durante tutta la carriera. Nel ’50 affiancò addirittura Sophia Loren nel film ‘Pellegrini d’amore’ (regia di Aldo Forzano) in cui interpretava la parte della (manco a dirlo) cameriera! Hai voglia ad essere gelosa!”
...e con l'inseparabile Carlo Carpitelli
I primi approcci di Lia con la realtà del teatro, ovviamente a fianco del padre, risalgono ai suoi cinque anni d’età allorché si esibì nella parte della strillozzina, figlia della Beppa, in una rappresentazione de “La ribotta a Montinero”. “Tutta la famiglia collaborava con la Compagnia Teatrale:” – ricorda Lia – “mio fratello Rodolfo impersonava Astarotte, Guido e Pierluigi, invece, si esibivano con l’orchestra, l’uno alternava il clarinetto alla batteria laddove l’altro suonava il pianoforte e tutte le canzoni e le musiche non erano altro che parodie di motivi ben più noti. Mia madre, al contrario, non ha mai voluto partecipare attivamente agli spettacoli, anche se il babbo cercava spesso conforto nei suoi preziosi consigli. La mamma, poi, da abile modellista e sarta qual era, forniva il proprio contributo confezionando gli abiti e gli arredi di scena”.
Un pizzico di nostalgia emerge, allorché Lia racconta delle trasferte della compagnia teatrale del babbo, tutte all’insegna della serenità totale: “Eravamo una grande famiglia e, come tale, ci muovevamo in blocco. Il viaggio degli attori era il viaggio delle famiglie al completo: una vera e propria carovana. Quelle volte in cui, raramente, si trovava in tournée da solo, in calce alle lettere che scriveva alla sua ‘Cocca’ (è così che mi ha sempre chiamato) trovavo le firme ed i saluti di tutti gli elementi della compagnia”.
Lia spiega di aver avuto delle lunghe pause, nella collaborazione col padre: dal precocissimo esordio si passò direttamente all’età prematrimoniale in cui ella interpretava tutte le parti della fidanzatina di scena cambiando partner ad ogni nuovo ciclo di rappresentazioni. Il matrimonio con Ettore Favilla ed il conseguente trasferimento a Milano, per questioni di lavoro proprio del marito, segnarono l’inizio della pausa più lunga: Lia si dedicò completamente alla famiglia, nonostante non abbia mai smesso di seguire le attività della Compagnia Teatrale con cui il padre ed i fratelli continuavano a mietere successi in Toscana ed in ogni parte della penisola. Il successivo trasferimento a Pontedera, a seguito del nuovo lavoro del marito presso la Piaggio, avrebbe potuto riavvicinare Lia alla recitazione, ma non fu così: preferì continuare nell’attività di amabile moglie e madre.
Si commuove nel raccontare la tristissima circostanza che la vide impotente protagonista il 13 agosto del ‘63: “Venne a trovarci Carlo Carpitelli e babbo lo accolse con il solito entusiasmo. Seduti sul divano, ad una battuta di Carpitelli cominciammo tutti a ridere sennonché mio padre mi si adagiò in grembo con gli occhi inaspettatamente sgranati. Non avevo il coraggio di tastargli il polso, temendo che fosse successo l’irreparabile, ma mi venne istintivo chiudergli gli occhi affinché non si rendesse conto della mia sofferenza di quel momento. Non fece in tempo a compiere i sessantacinque anni: avrebbe ricevuto la prima pensione entro la fine del mese in corso dopo una vita da impiegato alle poste”. Fu quella l’occasione che riportò Lia a condividere con la madre l’abitazione di Livorno a discapito del marito, costretto a fare il pendolare, che comunque accettò di buon grado. Da quel fatidico 13 agosto, i lavori di Beppe Orlandi sono finiti nell’ampia soffitta della casa di Via San Giovanni e nessuno li ha mai fatti riemergere finché “a mio figlio Stefano” – riprende – “non venne voglia di frequentare un corso di chitarra con il nipote di Carpitelli e, insieme, organizzarono un’esibizione presso il teatrino di una congregazione monastica con sede di fronte ai Bagni Pancaldi. Una sera, di ritorno dalla lezione di musica, espresse l’intenzione d’interpretare qualcosa del nonno durante quell’esibizione. Nessuno aveva più menzionato i lavori di mio padre e ci stupimmo che il ragazzo ne fosse a conoscenza. Ci confessò di essersi recato più volte in soffitta e di aver consultato i manoscritti del nonno imparandone a memoria diversi brani. Dopo un sommario e casalingo provino, giusto per saggiare il livello di preparazione dell’aspirante attore, la famiglia decise di dare libero sfogo ai desideri del ragazzo che conseguì un successo strepitoso. Io provai un’emozione particolare nel riconoscere, in lui, mio padre nei primi anni della carriera”.
Lia è adesso direttrice artistica della Compagnia Teatrale “Beppe Orlandi”, nata dall’entusiasmo scaturito a seguito di quella fortunata esibizione, ed ha esordito al Teatro Quattro Mori con la commedia “Li sfollati” in occasione della prima edizione di “Effetto Venezia”, a luglio del 1986: nonostante l’esibizione al chiuso, si registrò il tutto esaurito. Lia continua a rappresentare con grande entusiasmo e soddisfazione i lavori del padre anche se le difficoltà gestionali del sodalizio non sono da poco: “La nostra compagnia teatrale, in pratica, non ha sede se non a casa mia.” – C’informa – “Non abbiamo un teatro o anche semplicemente una sala grande abbastanza da consentire di ritrovarci per le prove delle nostre rappresentazioni.  Siamo costretti a provare a gruppi, spesso a casa mia, per poi amalgamarci all’ultimo momento. Per l’ultima rappresentazione de “Li sfollati” al Goldoni il 26 e 27 dicembre scorsi, per esempio, il teatro ci è stato messo a disposizione, in tutto, per sole tre serate: la prima per assemblare le scene, la seconda per provare le luci e la terza per le prove generali. Nient’altro! È improponibile continuare a lavorare in queste condizioni tanto è vero che la programmazione de “La ribotta a Montinero”, prevista per il prossimo dicembre, rischia di saltare proprio per mancanza di spazi in cui confrontarci ed amalgamare i componenti della compagnia, ben 50 elementi in tutto.”
Lia spiega come non esista un ricovero per i fondali e gli arredi di scena: “Tutto il materiale dell’ultima commedia è rimasto al Teatro Goldoni e quello degli altri lavori è temporaneamente ricoverato presso i magazzini del Teatro Granguardia, per gentile concessione del proprietario, ma non sarà sempre così. Il giorno in cui i depositi del teatro dovranno essere liberati non so davvero dove potremmo ricoverare la nostra attrezzatura”.
La direttrice ha mostrato reale delusione, al limite dello sconforto, nel descrivere la scarsissima disponibilità delle strutture precostituite nel cercare di mantenere vivo un patrimonio del bagaglio culturale ed artistico della nostra città e perdere un così importante tesoro della tradizione vernacolare labronica sarebbe davvero un sacrilegio.
Già adesso molti giovani ignorano il ruolo del personaggio a cui è stata intitolato quel tratto di strada che da Via Goito porta a Via S. Jacopo in Acquaviva e se l’oblio finirà per inghiottire anche gli ultimi tentativi di rivalutare gli artefici del nostro passato, sempre più se ne dimenticheranno.
Vogliamo trovargliela una sistemazione adeguata o no?


Ermanno Volterrani, 29.04.2008

venerdì 18 aprile 2014

I Bagni Roma di Antignano

Il mistero della conformazione a croce del primo piano
Quando Armandino giocava a calcio ai Bagni Roma
Anche il grande Picchi fu frequentatore dello stabilimento

In antichità lo chiamavano “il Bagno del Forte”, a quanto afferma Andrea Picchi, il titolare, con la sorella Rosella, dello stabilimento balneare “Bagni Roma” ad Antignano. Più che probabile  la relazione con il castello di Antignano anche se è difficile credere che già all’epoca fosse consuetudine recarsi in spiaggia, tuttavia un qualche collegamento deve pur esserci stato. A testimonianza di un utilizzo storicamente diverso della struttura, Andrea mostra la strana conformazione interna del fabbricato principale, attualmente adibito a ristorante e bar. In origine esso era costituito da una singola stanza terra-tetto successivamente restaurata da
Mario Picchi, il padre dell’attuale titolare, autore di un soppalco in muratura per ottenere due utili piani; l’accesso al secondo piano è tuttora consentito da una stretta scala a rampe di pochi scalini che, originariamente, serviva per raggiungere l’ampia terrazza sul tetto dell’edificio. Il novello primo piano della costruzione ha un’inquietante conformazione a croce che potrebbe dirla lunga sul suo reale utilizzo in tempi antichi: ipotizzare l’esistenza di una chiesetta o di una cappella a disposizione degli abitanti del forte dell’Antignano è di per se piuttosto facile. Tra l’altro i soffitti a volta multipla della stanza, uno per ogni ramo della croce convergenti su quello maggiore del corpo centrale, sono architettonicamente ben congeniati, estremamente attraenti e meritevoli d’indagini più approfondite. La stanza è praticamente in disuso laddove, al contrario, la terrazza a pari livello del lato sud è a disposizione del ristorante. Uscendo dal fabbricato, Andrea ci mostra l’annosa targhetta del numero civico 31, affissa sulla sinistra del portone d’ingresso, di un viale Principe di Napoli il quale, nel lontano 1918, si tramutò in Viale Vittorio Emanuele III destinato a sua volta, nel 1946, ad assumere l’identità definitiva dell’attuale Viale d’Antignano.
La giornata di libeccio e le avverse condizioni meteo non favoriscono di certo una visita sulle 2008”.
piattaforme adibite, in estate, alla sosta dei 230 ombrelloni e di una quantità non identificabile di bagnanti,
tuttavia è facilmente intuibile un certo fermento nei lavori di preparazione per la stagione estiva. In particolare Andrea ci mostra il cantiere per la ricostruzione della coppia di blocchi di cabine più vicini al mare, distrutta durante l’ultima libecciata, quella che ha colpito il nostro litorale il 21 marzo scorso. Dopo aver abbattuto e poi scavalcato i macigni della diga di sbarramento per un tratto di una quindicina di metri, la potenza dei marosi si è riversata sulla piattaforma in cemento armato a discapito delle cabine in questione delle quali rimane ormai solo un ammasso di detriti. “Il braccio di mare qui davanti è assolutamente privo di secche o piane sommerse che attenuino la forza delle onde che, di conseguenza, si riversano a riva con tutto il loro impeto.” – Specifica Andrea – “Tuttavia non tutti i mali vengono per nuocere, infatti, questa è anche la ragione per cui il nostro mare è sempre estremamente pulito, tanto da essere stato decorato con la Bandiera Blu per il 2007 e da esserne in lizza anche per il
Nel descrivere i lavori di ordinaria e straordinaria manutenzione, emerge un progetto di riqualificazione del bagno, verosimilmente attuabile già prima della fine dell’anno in corso, che prevede la costruzione di una piscina naturale, la ristrutturazione del gabbione e la dotazione di parte delle cabine di una
doccia privata. A proposito dei frequentatori dell’impianto, Andrea sottolinea come le famiglie con i bambini piccoli siano le più numerose. “I bambini rimangono da noi fino all’età di dodici anni,” – sottolinea – “poi se ne vanno, invogliati dagli stabilimenti maggiormente frequentati da adolescenti e, in genere, se ne ritornano all’ovile dopo che sono diventati genitori. Il nostro bagno è particolarmente adatto ai bambini piccoli. Nella zona più protetta dell’area balenabile, l’acqua è bassa ed i nostri animatori, titolari della qualifica d’istruttori federali, sono in grado di gestire le esigenze dei più piccini integrando, ove possibile, utili lezioni di nuoto. Non che i grandi siano lasciati in disparte, abbiamo anche una scuola sub, tuttavia i bambini sono quelli maggiormente desiderosi d’attenzione”. La piscinetta di cui si parla non è altro che la zona in cui le vecchie foto mostrano un grande tendone chiaro, utile alle signore per scendere in acqua senza scatenare sconvenienti impulsi carnali nella componente maschile dei frequentatori del bagno.
Andrea si ricorda volentieri degli anni sessanta allorché il compianto Armando Picchi era solito frequentare i bagni del cugino, spesso accompagnato dai colleghi dell’Inter o da quelli della Nazionale di cui faceva parte. “Era un asso nel gabbione e a mestola. La formazione dei cugini Picchi, Armando, suo fratello Mario (omonimo di mio padre) ed io, era sempre protagonista del torneo estivo che abbiamo vinto per ben tre volte aggiudicandoci il trofeo in via definitiva (come succedeva per la vecchia Coppa Rimet di calcio). Armando, in genere assumeva la posizione centrale e lasciava a noi il ruolo di comprimari ergendosi ad assoluto protagonista della partita”.
In onore del padre, Andrea organizza ogni anno la Notata Longa, una manifestazione dal carattere agonistico, ma dallo spirito goliardico, a cui partecipano nuotatori di ogni grado di preparazione ed età. La partenza della competizione è, alternativamente, dai Bagni Sama o dai Tre Ponti tuttavia l’arrivo è un punto fisso: i Bagni Roma. Dulcis in fundo, nell’albo dei ricordi dei Bagni Roma spunta il contributo all’ultima conquista del gozzo a dieci remi da parte del rione dell’Antignano, nel 1997, e non si esclude la possibilità di un nuovo intervento per un eventuale tentativo di riconquista.

L’apertura dei Bagni Roma per l’anteprima della stagione estiva è prevista per Santa Giulia tuttavia, a partire dal prossimo 23 aprile, l’impianto sarà a disposizione degli equipaggi che parteciperanno al 25° Trofeo Accademia Navale, quale base d’appoggio al Moletto d’Antignano, sede di parte delle regate.
Ermanno Volterrani, 19 aprile 2008

giovedì 23 gennaio 2014

La macelleria di Sansone

Piera Piram ricorda i tempi in cui aprì col marito l'attività al Mercato Centrale

Quando Piera Piram e Gino Chiapponi, ancora fidanzatini, misero piede per la prima volta sulla pedana di legno dietro il banco N° 21 della macelleria al Mercato Centrale, era da poco passata la guerra. Armando, il padre di Piera, proveniva da una famiglia di affermati norcini, titolari di un’avviata attività in Piazza dei Mille, e pensò bene di rendere i due giovani partecipi della nuova coinvolgente avventura. Al vecchio Piram spetta la palma del primo assoluto in Toscana, e Piera azzarda forse addirittura in Italia, ad importare carne di manzo e vitello congelata dalla lontana Repubblica Argentina: una svolta per il modo di pensare e, soprattutto, di mangiare delle famiglie appartenenti ad ogni classe sociale. Con l’avvento di quel tipo di carne, dal prezzo decisamente più abbordabile rispetto a quella fresca, anche chi era soggetto alle ristrettezze economiche conseguenti  al secondo conflitto mondiale e, di conseguenza, ad una dieta più povera, poteva permettersi una buona bistecca un po’ più di frequente.
“Lo smercio della carne, di qualsiasi taglio, era talmente celere da non rendere necessario l’utilizzo di un bancone congelatore,” – racconta Piera – “infatti abbiamo acquistato il primo banco-frigo solo alla fine degli anni sessanta. Non si faceva in tempo a metterla sul banco che spariva in men che non si dica. La clientela era molto varia tuttavia i più danarosi approfittavano della carne congelata per fare voluminose scorte laddove i meno abbienti riuscivano a permettersi una bistecca o un pezzo di lesso in più”. Con l’idea della carne congelata, il Piram servì da spunto ai macellai di tutta la Toscana che approfittarono della novità per allestire giri d’affari a raggio sempre più ampio: i più intraprendenti, come i Catalani di Figline Valdarno, imbastirono reti di distribuzione ancor oggi sulla cresta dell’onda.
“Ognuno in mercato aveva un soprannome:” – continua Piera – “Vitellone, Boccino, Veleno, Ricciolo, Pipino, Cicci, Baceci… nessuno usava il nome di battesimo, a testimonianza della grande famiglia di cui facevamo parte. Il mio Gino lo chiamavano Sansone, appellativo nato allorché da ragazzo sfoggiava una capigliatura folta e fluente, oltre ad un fisico davvero invidiabile, e se l’è portato dietro finché non abbiamo lasciato l’attività”. Gino è stato un atleta vecchio stampo, già Campione Italiano Militare dei 100 metri piani, della classe “S” di Vela, atleta della compagine rugbistica labronica e, ciliegina sulla torta, niente popò di meno che tedoforo in occasione delle Olimpiadi di Roma del 1960. Piera tradisce un inevitabile moto di commozione, nel ricordare il brillante passato agonistico del proprio consorte, della cui compagnia il destino l’ha privata meno di otto mesi fa.
Prima dell’alba i macellai scaricavano dai camion dei fornitori i quarti posteriori interi, detti “pistole”, per la particolare conformazione, e subito cominciavano a lavorare la carne. “Ci recavamo in bottega fin dalle quattro e mezzo del mattino, per preparare le forniture per i ristoranti e le mense oltre che per i clienti abituali il cui afflusso iniziava già verso le sette. Gino era particolarmente abile nel taglio delle varie partiture di carne. La sua particolare propensione consisteva nell’individuare sempre il fascio muscolare giusto dopodichè, col coltello, praticava una piccola incisione nel quarto di manzo impercettibilmente scongelato, ed infine a forza di scalpello e martello spartiva i vari tagli. Con i pezzi duri come il marmo, individuare il verso giusto era fondamentale. Solo negli anni settanta cominciammo ad importare i pezzi già spartiti”. Si scioglie allorché rammenta l’abilità del consorte nel taglio delle bistecche: due colpi opportunamente assestati alla lombata e la bistecca cadeva sul massiccio tagliere di legno. “Era capace di colpi talmente precisi che non si sbriciolava neanche l’osso e si poteva ricostruire la lombata intera, riaccostando le bistecche appena tagliate”.
E che dire dei “chiodi”? Più di un cliente accumulava piccoli debiti con la promessa di un saldo che non sempre è ha avuto buon esito. “Un quadernetto nero conteneva la lista degli inadempienti, ma non eravamo mai in pari: quello li prometteva, quell’altro spariva dalla circolazione, un altro ancora doveva pagare il mutuo… era più l’ammattimento a star dietro a chi ci doveva dei soldi del guadagno. Alla fine, estrema ratio, decidemmo di azzerare la situazione: il libro nero finì nella spazzatura e non concedemmo mai più credito a chicchessia”.
Ai tempi in cui il Mercato Centrale era al massimo dello splendore, il sabato era il giorno della settimana di maggior impegno, per i commercianti, cosicché il venerdì veniva osservato orario continuato proprio per preparare la merce in previsione del pienone del giorno successivo. All’ora di pranzo, immense tavolate accoglievano tutti i protagonisti della giornata ed ognuno contribuiva per quello che era di sua pertinenza: chi metteva la carne e chi il pesce, qualcuno pensava alla pasta ed altri al sugo o al formaggio e la frutta ed il pranzo di venerdì finiva per assumere i connotati di una ribotta vera e propria con tanto di sfottò e baldoria come si trattasse di una festa. “I più ingordi si sfidavano a chi mangiava di più adducendo stomaci dalle capacità infinite. Abbiamo visto qualcuno che si è spolverato un intero chilo di pasta, per una sfida del genere” – racconta Piera con un pizzico di malinconia per quei momenti di svago ancorché alternati a faticosi ed impegnativi tour de force: “quando i film erano in bianco e nero ed i sogni erano a colori”, come si è sentito dire da qualcuno.
Una decina d’anni fa i coniugi Chiapponi hanno pensato bene di godersi la conseguita pensione decretando, di fatto, la cessazione dell’attività della Macelleria Piram: “Ora, al posto della macelleria c’è una polleria”. – Conclude Piera – “Abbiamo lasciato a malincuore, per certi versi, e solo la prospettiva della tranquillità ed il meritato riposo, dopo cinquant’anni di onorato lavoro e molti sacrifici, ci ha fatto compiere il passo definitivo”.

Ermanno Volterrani, 12.04.2008


venerdì 4 ottobre 2013

La funicolare di Montenero

Compie cento anni la tramvia elettrica che porta i pellegrini al Santuario della Madonna simbolo della città
L'antico fascino della funicolare
Oggi, automatizzata e ammodernata tecnologicamente, sfrutta totalmente l'energia del sole

Un euro di biglietto, acquistato presso il tabaccaio di Piazza delle Carrozze, viene solo in parte inghiottito dall’obliteratrice che, in cambio di un timbro, sblocca automaticamente un tornello in acciaio inossidabile e, quindi l’accesso all’area d’imbarco della funicolare, dove la vetturetta aspetta impaziente di trasportare gli ospiti per i 656 metri del percorso, lungo un paio di lievi curve. Il fresco dei pini, che qua e là ombreggiano la zona, accompagna la salita verso il Santuario della Madonna delle Grazie, e viene saltuariamente rimpiazzato dai giardini delle abitazioni e delle ville che fiancheggiano l’unico binario. A un po’ meno di metà del tragitto, il binario si sdoppia consentendo l’agevole scambio delle due carrozze, quella che scende e quella che sale. Giunti a destinazione, dopo appena quattro minuti di viaggio, attraversata l’uscita, si accede alla ben nota piazza oltre cui già si notano le logge del Santuario, meta del pellegrinaggio dei devoti di tutto il mondo.
L’impressione è quella di aver appena fatto parte del cast di un film ambientato agli inizi del secolo scorso. Fin dal 1906, infatti, la Società Livornese Trazione Elettrica iniziò ad escogitare un sistema di trasporto che consentisse di soddisfare le esigenze del crescente numero di pellegrini di raggiungere celermente il Santuario della Madonna delle Grazie, universalmente nota come Madonna di Montenero, posto a 193 metri sul livello del mare. Il progetto vero è proprio della tramvia funicolare, realizzato dalla Ceretti & Tanfani, si concretizzò nel giugno del 1907 ed i lavori si completarono l’anno successivo per culminare, il 19 agosto, con l’inaugurazione della Funicolare di Montenero, integrata perfettamente con la linea tranviaria per i collegamenti con il centro città. La cerimonia d’inaugurazione della tratta, in pompa magna, avvenne alla presenza dell’allora Sindaco Malenchini, del Prefetto, del Prof. Vigo, del poeta Giovanni Marradi e fu, però, disertata dal Vescovo Sabatino Giani e dall’Abate dei Vallombrosiani don Arsenio Viscardi, evidentemente maldisposti al progresso.
All’epoca si trattava del primo impianto ad azionamento elettrico in Italia ed entrò di diritto a far parte delle attrazioni locali richiamando sul posto numerosi turisti, devoti e non. Le due vetture conformate “a scalone”, dalla carrozzeria in legno, assemblata su una robusta struttura a tralicci in acciaio, erano suddivise in tre scompartimenti con otto sedili ciascuno per un totale di 24 passeggeri seduti, a cui si aggiungevano una decina di persone che trovavano posto, in piedi, sulle piattaforme di servizio aperte: si raggiungeva così una capienza massima di 34 viaggiatori per vettura per ogni senso di marcia. Un potente motore elettrico Thomson-Houston consentiva alla coppia di vagoni di superare un dislivello di 110 metri e pendenze massime fino al 18,4% (la pendenza media supera di poco il 17%). Il binario unico, ad andamento curvilineo, si sdoppiava per una ventina di metri (…e, come detto, si sdoppia tuttora) a metà del percorso onde consentire alle carrozze di scambiarsi agevolmente. Il trillo di campanelli elettrici costituiva l’unico e solo mezzo di comunicazioni tra la stazione a valle e quella a monte mentre, durante il viaggio, le vetture erano assolutamente prive di qualsiasi tipo di comunicazione. Nel percorso originale esisteva una stazione intermedia che, con gli anni, era andata in disuso per essere definitivamente ripristinata in tempi più recenti.
Sul finire degli anni trenta, il collegamento tranviario tra il centro cittadino e la stazione inferiore della funicolare, in Piazza delle Carrozze, fu sostituito da un servizio di filobus che hanno fornito il loro onorevole servizio fino al 1973, anno in cui sono stati definitivamente smessi. Per i più grandicelli sarà facile ricordare come, fino a dieci anni prima, allorché fu inaugurata la strada panoramica, la Funicolare costituiva l’unico mezzo per raggiungere il Santuario della Madonna delle Grazie. Nel frattempo, nel 1972, il Comune di Livorno si accollò la gestione dell’impianto che, in tempi successivi, fu affidata all’A.C.I.T. (Azienda Consorziale Interprovinciale Trasporti) ed infine all’A.T.L. (Azienda Trasporti Livornese). Poco prima degli anni ottanta, si pensò bene di sostituire le vetuste carrozze in legno con altre più moderne e funzionali in ferro, in grado di ospitare 50 passeggeri, costruite dalla ditta Agudio. Per il primo ammodernamento dell’impianto vero e proprio, comunque, bisogna attendere un’altra decina d’anni allorché la gestione fu totalmente automatizzata; scomparvero i controllori di bordo ed il complesso fu reso governabile da un unico punto di controllo, situato nella stazione a monte, equipaggiato con dodici monitors in grado di ricevere informazioni da altrettante telecamere fisse disseminate lungo il tragitto e nella stazione a valle. Il tornello della stazione a valle divenne in grado di contare i passeggeri e bloccarsi autonomamente una volta raggiunta la capienza massima del vagone; in caso di un passeggero in carrozzella, il numero massimo di accessi veniva decrementato di 5 unità. Anche il tornello tra la sala d’attesa e la piattaforma d’accesso alla vettura fu reso completamente automatico e totalmente sotto controllo visivo dell’operatore a monte attraverso una telecamera. La fermata intermedia è tuttora a richiesta tuttavia può essere effettuata, sia in discesa che in salita, esclusivamente dalla vettura numero due.
Ma è poco prima dell’inizio del secondo millennio che si registra la più importante e, finora, definitiva miglioria operata per iniziativa dell’attuale gestore (l’Azienda Trasporti Livornese): l’installazione di celle fotovoltaiche in grado di sfruttare l’energia solare. I 348 pannelli, attualmente posizionati sul tetto della struttura del parcheggio, a poche centinaia di metri dalla stazione superiore, garantiscono il perfetto e regolare funzionamento della funicolare e, al tempo stesso, consentono l’immissione di una certa quota di energia in eccesso nella rete ENEL, nel rispetto delle più rigorose norme di disciplina e rispetto ambientale. Pur lasciando inalterato l’antico fascino dello stravagante e piacevole mezzo di trasporto, l’impianto è in grado di sviluppare energia elettrica tra i 40 ed i 50 megawatt annui e, quello che più conta, garantisce “emissioni zero”. La batteria di accumulatori è in grado di sopportare autonomamente, quindi senza altro apporto di energia dalla rete, fino a 17 viaggi anche a pieno carico e solamente in salita. In realtà, in caso di assenza di fornitura da parte della rete ENEL, gli accumulatori sono tarati in modo da ridurre le prestazioni in relazione alle loro condizioni di carica; inoltre la gestione completamente automatica del flusso di potenza da e per la rete, consente di recuperare, e quindi immagazzinare nella batteria, parte dell’energia rigenerata dalla vettura che si muove da monte verso valle. Si tratta di un sistema davvero all’avanguardia e, oltretutto, tra i pochissimi, in Italia, a funzionamento e gestione totalmente automatizzata.
Come dire? Fascino e tecnologia a braccetto lungo la Funicolare di Montenero.

Ermanno Volterrani, 04.04.2008

CARATTERISTICHE GENERALI
Lunghezza percorso:
636 m
Dislivello:
109,58 m
Pendenza media:
17,23%
Pendenza massima:
18,60%
Quota stazione a valle:
74,28 m s.l.m.
Quota stazione a monte:
183,86 m s.l.m.
Stazione motrice:
 a monte
Treni di linea:
2
Capacità di ogni treno:
50+1
Tempo minimo di corsa:
190 secondi
Tempo minimo di un ciclo:
310 secondi
Potenzialità massima:
580 persone/ora per ramo
Velocità massima:
4 metri/secondo
Velocità con recupero:
2 metri/secondo
Potenza motore elettrico principale:
48 KW
Potenza motore diesel argano di recupero:
45 KW
Diametro fune traente:
2 mm


domenica 10 marzo 2013

Mario der riovero

Marino Scarfi, Mario der ri’overo, il piccolo grande uomo che recitò con la Gardner
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“Hai mai sentito parlare di Mario der ri’overo?” Una domanda del genere posta ad un livornese che non abbia ancora compiuto i trent’anni riceverebbe, come risposta, un’alzata di spalle che la dice tutta su quanto poco sia rimasto della figura del piccolo grande uomo, capace di calamitare su di se l’affetto di una città intera. L’incedere altalenante, tipico della prpria condizione di acondroplasico, lo rendeva inconfondibile e chiunque, incontrandolo, si soffermava per scambiare con lui anche solo una battuta.
Mario der ri’overo, al secolo e all’anagrafe Marino Scarfi, è una delle figure più caratteristiche della recente storia popolare livornese, amato e benvoluto come pochi altri grazie alla propria benevolenza, generosità ed arguzia fuori dal comune. “Grazie allo zio Mario, già all’età di appena quattro anni, ho assistito alla prima partita di calcio a Villa Cayes. Nonostante avesse un’infinità di amici che reclamavano la sua presenza, ogni domenica lo zio era ospite a casa nostra e, quando il Livorno giocava in casa, dopo pranzo mi portava alla partita, i primi tempi a Villa Cayes, appunto, e poi allo stadio. Mentre salivamo i gradini degli spalti, in molti tiravano lo zio per la giacca a destra e a manca affinché si sedesse accanto a loro: c’era la ressa per amario0001.jpgccaparrarsi la sua compagnia”. Inizia così il resoconto di Ennio Scarfi, nipote di Marino… Mario per discendenza diretta, riconoscente per l’importanza che lo zio ha avuto nella formazione della propria identità sportiva. “Lo zio Mario era un’amante dello sport vero e leale, quello di una volta, ed è riuscito a coinvolgermi al punto che le ultime vicissitudini a livello calcistico, come la cupola di calciopoli o gli avvenimenti luttuosi degli ultimi tempi, me ne hanno fatto allontanare. Non c’era bisogno di bastoni, coltelli e petardi, quando andavamo allo stadio noi; il massimo che poteva capitare era un occhio nero per una scazzottata tra tifosi di compagini avversarie, magari tra pisani e livornesi, dopodichè si finiva tutti dal Civili a riconciliarsi di fronte ad un ponce caldo”. Nella palestra di Via del Leone, prima, ed a San Marco, poi, Mario era di casa e gli atleti della Pugilistica Livornese (Bertola, Ceccarini ed altri, nell’arco degli anni) gli portavano il massimo rispetto considerandolo uno di loro, a dispetto della statura e del fisico tutt’altro che prestante. “Quando si trattava di assistere ad una manifestazione sportiva, lo zio era sempre ospite di qualcuno dell’organizzazione e non gli ho visto mai pagare il biglietto d’ingresso e neanche io ho mai tirato fuori un centesimo, quando ero con lui. Perfino in occasione di trasferte, anche lontane, ricordo di una volta a Palermo, la sua compagnia era tra le più ricercate e, quando con un amico, quando con un altro, aveva sempre il posto assicurato. Un po’ per la bassa statura, un po’ per l’arguzia e la simpatia che contraddistingueva il suo modo di proporsi al prossimo, lo zio era considerato un po’ come una mascotte”.
Mario aveva la propria residenza all’istituto Giovanni Pascoli di Via Galilei (ovviamente prima che fosse trasferito in Via Mondolfi), a cui fu affidato fin dalla giovanissima età in quanto orfano d’entrambi i genitori. “Il padre, siciliano, era sottufficiale della Marina Militare” continua Ennio “e, dopo un periodo trascorso a Cagliari, giusto il tempo di conoscere colei che è divenuta la propria moglie e di avere un figlio, mio padre (per inciso, mio padre amava a tal punto Livorno fino quasi a rinnegare le proprie origini isolane), fu trasferito alla Capitaneria di Porto di Livorno e qui, il 10 agosto del 1901, vide la luce Marino. Allora, abitavano dalle parti di Via San Francesco e, a quanto si tramanda, a mia nonna capitava spesso di transitare di fronte alla bottega di un calzolaio di Via del Mulino, a sua volta nano, da cui sarebbe rimasta impressionata al punto da influenzare e addirittura determinare le fattezze e la statura del figlio che portava in grembo”. Ennio ride nel raccontare l’episodio.
Col passare degli anni, Mario si deve essere ambientato alla casa di riposo di Via Galilei al punto da rimanervi per tutta la propria vita. “Prima della guerra, mio padre, suo fratello, avrebbe voluto vederlo sistemato in maniera più vicina ad un a condizione considerata ‘normale’ ed aveva, addirittura, pensato di aiutarlo nel rilevare un’edicola di giornali tuttavia lui ha sempre rifiutato, forte della situazione di privilegio di cui godeva tra i residenti dell’istituto Giovanni Pascoli. Il dottor Acquaviva, il direttore dell’istituto dell’ultimo periodo trascorsovi dallo zio Mario, gli voleva un gran bene e gli assegnava incarichi e commissioni su misura per lui. Benché non fosse un vero e proprio impiegato e non percepisse alcuno stipendio, lo zio aveva il proprio ufficio in cui espletava le proprie funzioni in relazione alle disposizioni del direttore. Inoltre, gli anziani domiciliati presso il ricovero, specialmente coloro che si muovevano con difficoltà a causa dei malanni dell’età avanzata, si avvalevano della sua collaborazione per riscuotere la mensilità della pensione, in cambio di un po’ di mancia che Mario, spessissimo, tramutava in ricevute del botteghino del Lotto. Era l’unico suo vizietto:” sorride Ennio “nonostante i familiari cercassero in mille modi di dissuaderlo, giocava forte al Lotto, al limite dell’accanimento ma, per sua fortuna, vinceva piuttosto spesso ed arrivava a casa soddisfatto sventagliando i proventi della vincita di un ambo o di un terno. Quando si rimproverava, in modo benevolo, perché non ha mai chiesto soldi a nessuno, mostrava 10 ricevute, quando magari, in realtà, aveva effettuato almeno una quindicina di giocate. I più piccoli, come lo ero io all’epoca, erano i beneficiari delle sue vincite al gioco in quanto spesso arrivava con un apprezzato regalino”.
Oltre allo sport, Marino… Mario amava la fotografia ed Ennio, affrontando l’argomento, si alza dalla sedia e si reca verso i ripiani del mobile del salotto da cui preleva una vecchia macchina fotografica Kodak, con obiettivo a soffietto, che ci mostra con orgoglio: “Questo è l’ultimo regalo, o sarebbe più corretto definire ‘l’eredità’ che mi ha lasciato mio zio. Da lui ho appreso i segreti della fotografia, di cui era davvero appassionato cultore. Non aveva soggetti preferiti: i suoi interessi svariavano dai panorami mozzafiato della piazza del Santuario di Montenero ai ritratti femminili, dai tramonti sulla Terrazza Mascagni alle manifestazioni sportive. Chi scattava fotografie, una settantina d’anni orsono, non aveva l’ausilio di esposimetri, teleobiettivi, grandangolari e correttori d’esposizione, la buona riuscita di un’istantanea dipendeva dal polso fermo e dall’occhio che traguardava attraverso il mirino della macchina fotografica… e devo dire che lo zio era davvero molto capace. Purtroppo delle sue foto non è rimasto praticamente nulla, cannibalizzato a destra e a manca da parenti amici e conoscenti”. Ennio racconta di essere stato costretto ad abbandonare Livorno e l’Italia per un lungo periodo, a causa di gravi problemi di salute, e teme che proprio, in quel periodo, parte della propria collezione fotografica si sia dispersa nel corso degli inevitabili traslochi dovuti ai ripetuti cambi di residenza. “Facevamo spesso fotografie ad una bella ragazzina, di pochi anni più grande di me tuttavia ben più donna di quanto non fossi uomo io, che abitava nella zona dei fossi. Ricordo di una volta, al moletto d’Ardenza in cui, non sapendo ancora nuotare, mi mostrai timoroso nell’entrare in acqua. Quella ragazzina mi tolse da ogni impiccio e, con uno spintone, mi scaraventò di sotto, costringendomi ad imparare. Come si dice da noi: o bere o affogare! Anche lo zio era un discreto nuotatore nonostante le dimensioni degli arti, soprattutto delle gambe, non lo agevolassero”.
Forte della propria condizione di scapolo, benché la condizione fisica lasciasse a desiderare e non avesse mai neanche preso la patente, lo zio Mario era sempre pieno di donne. Probabilmente si faceva apprezzare per la discreta cultura e l’intelligenza che dimostrava nelle proprie conversazioni, nonostante potesse contare esclusivamente sulla licenza di quinta elementare, un lusso se paragonata al grado d’istruzione medio della gente dell’epoca. Leggeva tantissimo e non aveva preferenze spaziando da libri a giornali, in prevalenza sportivi, ma non solo. Per quanto riguarda i rapporti con le donne, comunque, si diceva in giro che, laddove la natura era stata ben poco generosa nel conferirgli un aspetto estetico tutt’altro che attraente, la stessa natura avrebbe abbondantemente rimediato nella fornitura di attributi meno appariscenti tuttavia notevolmente apprezzati da una certa categoria di rappresentanti del sesso femminile. Magari è proprio questo il motivo per cui non si è mai preoccupato d’impegnarsi in una duratura relazione sentimentale.
Ennio butta sul tavolo un episodio dell’immediato dopo guerra: “Al Gimnasium, lo zio partecipò ad uno spettacolo di Sergio Galli, uno dei tanti allestiti dal comico livornese a cui ha partecipato, il cui titolo mi sfugge, in cui interpretava un improponibile neonato. Ho ancora fissa negli occhi l’immagine dello zio all’interno di una carrozzina, agghindato in tutto e per tutto come un bebé, con tanto di cuffietta orlata di trine in testa ed il ciuccio in bocca. Ricordo di aver visto spesso in giro per casa una fotografia che lo ritraeva in quelle condizioni, purtroppo l’ho cercata a lungo ed in ogni dove, ma non sono stato capace di trovarla”. Una conferma delle qualità artistiche del nostro beniamino è facilmente rintracciabile su internet: Mario del ricovero, pur da comparsa, interpretò il ruolo di Bonito nel famoso film “La Maja Desnuda” del 1958, diretto da Henry Koster e fregiato del David di Donatello d’oro dell’anno successivo per la miglior produzione. In quell’occasione, Mario ha condiviso il set con attori del calibro di Ava Gardner (nel ruolo della Duchessa d’Alba), Antony Franciosa (Francisco Goya), Amedeo Nazzari, Gino Cervi e Lea Padovani… e scusate se è poco. “Si, si!” conferma Ennio “Lo zio ha partecipato a diversi film, sempre interpretando parti di secondo piano, soprattutto con Erminio Macario, al tempo degli stabilimenti cinematografici della Pisorno. Per colpa della mia memoria a corrente alternata, ricordo solo un titolo: ‘Il pirata sono io’, un film comico del 1940 interpretato dallo stesso Macario e da Tino Scotti… ma più di qui non si va! Le esperienze sul set gli hanno consentito di conoscere, tra gli altri, Primo Carnera il gigante buono di Sequals, mito degli anni ’30 e la fotografia di Luciano Ciriello che ritrae la loro stretta di mano è appesa in molti angoli della nostra città”.
Il 29 luglio del 1973, dunque proprio alle soglie dei 72 anni, al termine di un breve periodo d’infermità, tipico di certe tare ereditarie, Mario ha preso la via del mondo dei più e purtroppo, ad oggi, non c’è più traccia neanche della sua tomba: “Alla scadenza dei venticinque anni dalla sua scomparsa, i resti dello zio Mario sono stati rimossi, in accordo con la regolamentazione vigente. Era il periodo in cui io mi trovavo negli Stati Uniti a cercare una soluzione ai già citati gravi problemi di salute e mi sono molto rammaricato scoprendo, al mio rientro in città, che la tomba era stata smantellata e rimpiazzata: ne fossi stato informato avrei senz’altro provveduto a riscattarla per mantenere vivo il ricordo di un uomo che la popolazione di Livorno ha sempre dimostrato di amare davvero”.
Un altro tassello della tradizione popolare labronica che rischia di essere travolto e, ahimé, disgregato dell’incedere degli eventi.
Ermanno Volterrani, 01.03.2008

domenica 28 ottobre 2012

La Fonte Vecchia di Antignano

Gli antignanesi utilizzavano il ponte come rifugio contro le bombe
La Fonte Vecchia dissetava gli antignanesi durante la guerra
I ragazzini sbirciavano sotto le gonne delle massaie chine a lavare i panni

Molti livornesi magari non ne conoscono neanche l’esistenza tuttavia la Fonte Vecchia ha rappresentato un punto fermo per Antignano e gli antignanesi, soprattutto i residenti nella zona “vecchia” del paese, che si sviluppa attorno alla Piazza Bartolommei ed al vecchio Castello, già Albergo Cremoni.
Imboccando la Via del Ciliegio e procedendo verso nord, ci si lascia a destra la Via del Poggetto per impegnare un declivio piuttosto ripido al termine del quale s’intravede la vegetazione tipica dei numerosi botri e rii che solcano la nostra terra. Il Botro delle Carrozze, anticamente Botro della Fonte Vecchia, per l'appunto, è un rigagnolo d’acqua corrente che sbuca dal ponte che già nel lontano 1799 fu realizzato per consentire la percorrenza della Via del Littorale senza essere costretti ad un fastidioso guado del piccolo corso d’acqua. Al termine della discesa, rivolgendosi verso destra, si distingue nettamente la struttura degli antichi lavatoi pubblici della Fonte Vecchia, gestiti dall’Amministrazione Comunale fin dai tempi antichi.
Percorsi pochi passi, un cartello bianco e rosso su una minuscola transenna, larga un metro a malapena, reca l’intestazione dell’Ufficio Traffico del Comune di Livorno ed avvisa semplicemente di una situazione di pericolo, senza tuttavia negare o sconsigliare l’accesso alla pericolante struttura. Bassi cespugli d’erbacce riducono il passaggio ad un viottolo che costeggia il minuscolo corso d’acqua il cui pacato gorgogliare contrasta con l’evidente situazione di degrado che regna all’intorno. Sulla destra del viottolo, a ridosso dell’alto muro in cemento, pochi laterizi, tegole di tipo romano, testimoniano l’intenzione, ahimé remota, viste le condizioni di totale abbandono del materiale, di un possibile restauro. La tettoia versa in pessime condizioni cosicché le travi di sostegno, in legno massiccio, paiono sopportare a malapena il peso delle strutture sovrastanti, nonostante poggino su colonne portanti di recente, anche se non recentissima, ristrutturazione: il rischio di prendere una tegola tra capo e collo è palese e testimoniato dal fatto che non c’è traccia della prima sezione della tettoia, evidentemente crollata da tempo ed opportunamente rimossa (magari le tegole accantonate sono residui dello spiovente crollato!). La vista del botro, attraverso le uniche due aperture, è completamente ostacolata dalla vegetazione di canne e da pannelli di compensato mezzi marci dalla provenienza ignota. Sul fondo e sui bordi delle due ampie vasche dei lavatoi, colme d’acqua limpida, il muschio verde la fa da padrone ed altra vegetazione si è insediata su parte dei bordi. La netta sensazione di malinconia che assale nel percorrere il breve tragitto sotto la pensilina, prestando attenzione ad evitare fangose quanto scivolose pozzanghere, è solo parzialmente alleviata dallo scroscio dell’unico tubo che spunta di fianco, da cui un copioso getto continuo di acqua chiara e freschissima induce a bere a pieni sorsi. Dal muro dirimpetto, interamente occupato da larghe chiazze d’umidità, un fiotto d’acqua filtra attraverso una crepa. Ritornando sui propri passi, si ode un nuovo gorgogliare: lo scarico delle pile, nascosto da un cespuglio d’erbacce.
E pensare che fino a meno di quarant’anni fa, le attività alla Fonte Vecchia erano ancora, se non proprio frenetiche, per lo meno vitali. Le massaie si recavano per lavare i panni nell’acqua costantemente rinnovata nella coppia di grandi vasche, magari in compagnia di figli o nipotini, e c’è da giurarci che l’occasione rappresentasse un importante momento di aggregazione per la piccola comunità paesana. Sembra tuttora di udire l’eco di qualche canzone storpiata a squarcia gola da qualche ilare comare intenta a battere un lenzuolo sullo scivolo del lavatoio.
Scorrendo ancora un po’ indietro nel tempo, ragazzini ormai più che sessantenni, ricordano d’essersi rimpiattati tra la vegetazione spontanea del Botro della Fonte Vecchia per sbirciare, indisturbati, verso l’argine o verso le pile dove le massaie, lavandaie per l’occasione, si chinavano in avanti esponendo i propri generosi fondo-schiena allo sguardo avido d’adolescenti dagli ormoni irrequieti.
Furio, il figlio di Lina, l’ultima custode del sito, che aveva ereditato il ruolo dalla madre, racconta di quando, scendendo con la nonna, trovava famigliole di zingari che lavavano nidiate di figlioli nelle pile della Fonte Vecchia. Perfino in inverno, le mamme tuffavano quei ragazzini completamente nudi nelle pile colme d’acqua gelida in barba ad ogni precauzione contro raffreddore, tosse ed altri malanni di stagione.
I più anziani ritornano ai tempi della seconda guerra mondiale allorché l’arcata dell’ampio ponte sul botro, quello della Via del Littorale, era utilizzata quale ricovero, o più propriamente come rifugio, durante i numerosi bombardamenti che hanno falcidiato la nostra città ed i suoi dintorni. Si rammenta una coppia d’anziani, soli e senza figli, che si univano alla comunità nell’occasionale rifugio, recando con se una minuscola borsa, forse un piccolo tascapane, nel quale doveva aver prudentemente riposto tutti i propri averi, ben pochi viste le modeste dimensioni del contenitore, intenzionata a salvarli nell’eventualità in cui la gragnola di bombe avesse colpito la propria abitazione.
E che dire del ruolo importantissimo, per non dire fondamentale, che la Fonte Vecchia ha avuto nell’approvvigionamento idrico del paese, spesso a secco durante le fasi più ostiche del conflitto? Laddove gli abitanti di Antignano Nuovo si recavano alla fontina sul mare (quella che attualmente si trova in fondo a Via della Salute, ormai non più nella posizione originaria), quelli di Antignano Vecchio, armati di brocche di rame, secchi, catinelle e qualunque recipiente potesse contenere acqua, facevano la fila al cospetto di quell’unico disponibile tubo erogatore del primario elemento.
            Lina manteneva la zona pulita e perfettamente agibile, è andata in pensione, mai rimpiazzata, un bel po’ d’anni fa e, recentemente, ci ha lasciato; magari da dove si trova adesso, avrebbe un motivo per sorridere, se a qualcuno dell’Amministrazione Comunale venisse in mente di ripristinare e rivalutare la Fonte Vecchia prima che sia definitivamente inghiottita dalla vegetazione che rapidamente si diffonde sugli argini dell’omonimo botro.
A quando la cerimonia d’inaugurazione?

Ermanno Volterrani, 24.02.2008